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La chiesa di Sant'Antonio

Sant’Antonio abate, alla stregua di san Rocco, è uno dei santi più popolari nella zona del Sommolago. Sulla sua vita di eremita nel deserto, sulle sue tentazioni e le virtù taumaturgiche l’agiografia popolare ha infatti ricamato abbondanti particolari tramandati diffusamente dalle fonti scritte ed orali. Sant’Antonio abate a partire dal Medioevo viene presentato in particolare come uno dei principali patroni del lunario contadino: protegge gli animali, dà fertilità alle terre ed alla donna, è invocato dalle zitelle e da quanti hanno perso qualcosa. «Sant’Antonio dalla barba bianca fame trovar quel che me manca», recita infatti un adagio veneto e trentino, a segno di una devozione più pratica che spirituale. Altre virtù del santo consistono nel guarire gli ammalati di herpes (il fuoco di Sant’Antonio), nel segnare l’estendersi della luce diurna (da Sant’Antonio Abà un’ora è passà), e quindi in qualche modo si rapporta per contrasto al giorno di San Giovanni Battista, quando dopo le giornate solstiziali la luce comincia lentamente a declinare.  Nell’iconografia diffusa viene rappresentato con il porco (Sant’Antonio porzeler), segno del suo potere sugli animali ma anche per indicare che il “fuoco di Sant’Antonio” si curava con il grasso animale: quello del maiale soprattutto, che veniva spalmato sulla cute malata.

Non c’è comunque dubbio che i meriti più grandi del Santo in tutte le comunità contadine, e nella fattispecie anche a Ville del Monte, siano legati al suo potere sugli animali. «Sant’Antonio il diciassette, che le stale in festa mette, mette in festa anche il pollaio, nel rigore di gennaio», recita ancora l’ottonario della tradizione. In questa data infatti fino a non molti anni fa sui sagrati delle chiese si benedivano gli animali e si distribuivano le immagini del patrono da appendere come amuleti a difesa delle rendite delle famiglie che basavano i loro magri redditi sui frutti della stalla.

È certamente questa la motivazione che spinge gli abitanti delle frazioni che compongono la comunità delle Ville del Monte a dedicare a sant’Antonio una chiesa costruita probabilmente nel Quattrocento lungo la strada che da Tenno conduceva da una parte verso Ballino e dall’altra ai prati di Rancione, dai quali la popolazione locale traeva una parte della sussistenza quotidiana. La chiesa si presenta tuttora come una delle più interessanti del tennese. Ha un ampio portico ad archi a tutto sesto dove campeggia un affresco sbiadito del patrono. Da qui attraverso due porte, che fino a non molti anni fa servivano separatamente per gli uomini e le donne, si entra nell’edificio a tre navate, sostenuto da pilastri di pietra rossa di gusto rinascimentale. Le volte sono a crociera con costoloni gotici e sulla serraglia della navata appare incisa la data 1617, indice di uno dei tanti interventi testimoniati da diverse date che a partire quantomeno dal 1541 mostrano come la chiesa sia cresciuta disordinata attorno ad un nucleo archetipo forse diversamente orientato. Tre sono gli altari: quello maggiore e due laterali. Il primo, in marmo, è dedicato al patrono e si inserisce in un catino absidale, affrescato nel 1947 dall’Orsingher, sul fondo del quale è conservata una grande e preziosa pala con la Madonna in trono fra  quattro santi, datata 1532 e firmata dal valente monogrammista V. F. (recentemente individuato in Francesco Vicentino, ovvero Francesco Gualtieri) che ha lasciato altre due pregevoli opere nella chiesa già dei Disciplini a Riva. Sulla parete sinistra del presbiterio si nota inoltre un affresco con la figura di sant’Antonio. Del rinascimento locale non abbiamo però altri dati, se non nelle fugaci notizie degli atti visitali. Meglio definibile è la situazione barocca, allorché le devozioni si accendono con l’estendersi dei culti e delle pratiche penitenziali. La comunità delle Ville del Monte non fa eccezione ovviamente. Fin dal 1618 trama ad esempio per avere un sacerdote in grado di emancipare le frazioni dalla sudditanza pievana.  La scusa, se non il movente, è la difficoltà a raggiungere la chiesa matrice per l’imper­via delle strade, «diroccate e sassose», come troviamo nel documento. Per questo i vicini ed altri abitanti nelle frazioni circostanti si tassano allo scopo di costituire un reddito sufficiente a garantire la presenza stabile di un cappellano. Il risultato è la costituzione di una fradaglia, ovvero della Confraternita di San Giovanni e di Sant’Antonio, la quale giunge ad amministrare un patrimonio sufficiente per obbligare il prete beneficiato a celebrare ogni domenica e tre giorni alla settimana presso la chiesa di San Giovanni di Calvola e soprattutto di Sant’Antonio. I registri a questo proposito conservano l’elenco dei contribuenti e i patti che regolano la cappellania. Il sacerdote deve essere scelto prima di tutto fra le famiglie che hanno contribuito alla fondazione del beneficio. Solo se non ve ne fossero stati si poteva allargare il raggio attingendo prima alla «vicinanza» ed in subordine alla comunità intera di Tenno. La scelta di un forestiero è dunque l’ultima spiaggia. In questo caso si impone che quantomeno questi sia tenuto ad abitare stabilmente in una delle frazioni delle Ville senza la possibilità di allontanarsi se non con il permesso dei massari. Oltre alla celebrazione delle messe, fra gli obblighi principali il beneficiato si ritrova la riscossione delle entrate soggette alla chiesa, l’insegnamento della dottrina cristiana, che supplisce alla predicazione dal pulpito, ed infine «il tenere scuola di leggere e scrivere e conteggiare». La chiesa evidentemente così può crescere meglio sia per quanto riguarda l’aspetto religioso che quello civile. Lo stesso edificio può godere di qualcuno che lo curi stabilmente, almeno entro certi limiti determinati dall’efficienza del sacerdote e dalle economie della vicinia. Nel 1671 ad esempio troviamo una testimonianza positiva in questo senso. La chiesa viene definita pulcra e dealbata, con il pavimento integro ed una buona illuminazione. Tre sono gli altari: il maggiore dedicato a Sant’Antonio, con una pala partim antiqua et tam deaurata; il secondo è titolato alla Vergine di Loreto ed il terzo a San Giovanni evangelista e a San Paolo, entrambi con le rispettive tele ben dipinte e dorate.

Se l’interno è bello e imbiancato rimane però da rimediare al cimitero attorno alla chiesa, che pochi anni dopo viene definito «sordido» e certamente non consono ad ospitare i defunti che il secolo della peste aveva contribuito ad incrementare. Passa invece senza particolari traumi l’invasione gallispana del 1703, o quantomeno non viene ricordata nei visitali del 1708 che lamentano piuttosto l’umidità trovata in sacrestia, definita troppo al di sotto del piano di calpestio esterno. Ad intingere la penna nelle lamentele è il parroco di Tenno che nel 1768 ci tramanda anche la presunta testardaggine delle 525 anime locali. «Nonostante i decreti proibenti il riporre nel cimitero di Sant’Antonio abate delle Ville legne, scalini ed altre cose, non è stato ubbidito, e nemmeno ad altro decreto visitale dell’anno 1708, in cui seriosamente si proibiva di seppellire alcun cadavere sotto la tribuna della detta chiesa… Nella medesima chiesa si fa nelle domeniche la dottrina cristiana, e secondo i capitoli confermati dalla reverendissima Superiorità deve farsi all’ora del mezzo giorno per non frastornare le funzioni parrocchiali». Il fatto è che oltre a non osservare l’orario si trascurano anche le norme più ovvie della didattica religiosa che consiste nel «catechizzare assaissimo i figlioli». Non così però fa il beneficiato delle Ville, il quale «predica sul pulpito a chi dorme, non curandosi di scuotere la sonnolenza». C’è poi un’altra cosa che dimostra la cocciutaggine dei vicini di Sant’Antonio, Pastoedo e Canale, prosegue il parroco. Da questi infatti «si tiene per cosa certa che la campana maggiore della chiesa perda la virtù contro i cattivi tempi se questa venga suonata per i morti; ed è così radicata questa lor opinione che non vagliono ragioni a disingannarli. Furono nelle passate visite chiamati alcuni di loro, essendo stati accusati di superstiziosi, e da un sacerdote di questo paese fu loro suggerito (e fu una bugia) quel che dovevano rispondere in discolpa, affine di continuare la loro opinione, e qui temo che non rinunceranno, quando non siano obbligati,  a suonarla anche per i morti sotto qualche pena». Ma come uscirne, sembra dire sfiduciato l’arciprete, visto che don Giacomo Berti di Canale, soprattutto in tempo di festa, perde tempo «con giocare alla palla o bocchie» con i giovani che poi «non gli portano il rispetto dovuto». Lo stesso cappellano don Giovanni Cazzoli appare «negligentissimo alle funzioni e alla dottrina, non intervenendo né a quella della parrocchiale né a quella che si fa a Sant’Antonio alle Ville, ed appena celebrata la messa si spoglia del collare e va vestito alla scolaresca». Sempre lo stesso prete «nel tempo delle vacanze non s’astiene dall’uccellare ne’ giorni festivi, quando come gli altri sacerdoti dovrebbe frequentare le chiese».

La situazione non sembra mutata nei primi anni dell’Ottocento, anche se non abbiamo una relazione così precisa. La chiesa filiale viene considerata scarsamente dotata di suppellettili e non è in ordine il cimitero, che comincia a farsi angusto. Tutti tre gli altari sono ancora in legno, «offesi dal tarlo», che li sta minacciando. Nella relazione del  1839 troviamo scritto che il sindaco del paese aveva cercato di fare qualcosa, ma le intenzioni non erano approdate a nulla. A preoccupare è soprattutto la mensa lignea dell’altare maggiore che viene definita «fradicia». Il tabernacolo stesso si dice «mal formato e mal sicuro». Peggio ancora stanno gli altari laterali: «quello di destra marcio ed inservibile, l’altro ha il parapetto indecente». Sono ambedue attorniati dalla ferriata menzionata fin dalla fine del Seicento, ma qui si nota che lo scalino che li separa dal suolo è «peranco troppo basso». Si era pensato di costruirli tutti in finto marmo, e per questo erano stati ottenuti i permessi e raccolti i denari. «Certi zelanti» avevano però pensato di costruire in marmo vero l’altare maggiore ed ora era in corso un’altra pratica presso l’Autorità politica onde ottenere il relativo consenso che porterà al risultato sperato solo negli anni successiviNella seconda metà del secolo la chiesa viene quindi giudicata «provveduta e bene tenuta», anche se rimane sempre alle dipendenze della parrocchiale di Santa Maria di Tenno. Anche il popolo è buono, riferisce il «cappellano esposto» don Cesare Baroni, ed i «pasqualini», ovvero coloro che si accostano ai sacramenti solo in occasione della Pasqua, «pochissimi».

Da qui in poi i documenti lasciano intravedere la lunga lite fra la comunità ed il cappellano a proposito degli antichi patti da rispettare, nonché la diatriba per il possesso della canonica. Poi sul paese cala il silenzio provocato dalla prima guerra mondiale.  Il resto è purtroppo caratterizzato ancora da incuria e da ruberie. Qualche decennio è sparita ad esempio la statua di Sant’Antonio che ora vediamo riprodotta in copia, assieme a quella di San Valentino ai lati del presbiterio.  Nel 1940 la pala del monogrammista situata dietro l’altare maggiore viene restaurata, ma pochi anni dopo il sovrintendente Camillo Rasmo la trova «appoggiata a terra, dietro l’altare», rovinata da un «deplorevole incidente» causato da «grave incuria». Si deve quindi procedere ad un nuovo restauro e solo nel 1962 la popolazione festeggia la «preziosa opera». Il resto è storia recente.

Tratto da "Ecclesie, le chiese nel Sommolago", ed. Il Sommolago, Arco, TN. Giubileo 2000.


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